Lettera pastorale per la Quaresima 2025

Mercoledì delle Ceneri, 5 marzo 2025

Un segno di speranza in questo Anno Santo 2025: riconoscere gli errori, ammetterli e rivederli criticamente. 

Care Sorelle e Fratelli nella nostra diocesi di Bolzano-Bressanone!

Lo studio indipendente sugli abusi, commissionato dalla nostra diocesi, ha suscitato grande scalpore, andando ben oltre i confini diocesani e altoatesini, generando reazioni diverse: sgomento, vergogna, tristezza, rabbia, incomprensione, ma anche rispetto, gratitudine, lode, riconoscimento e la disponibilità a impegnarsi per un cambiamento a livello di cultura e di mentalità. Personalmente, oltre alle molteplici esperienze di sofferenza umana, mi sento provocato soprattutto da una costatazione: la mancanza – nel modo di affrontare episodi di abuso – di una cultura dell’errore, che evidentemente c’è stata e continua a farsi sentire anche nella nostra diocesi. Anche se parliamo così spesso di perdono, anche se lo chiediamo in ogni “Padre nostro”, anche se l’intera storia biblica ci esorta a riconoscere gli errori, anche se ci è stato donato un sacramento per la conversione e il perdono, spesso ci risulta difficile nominare la colpa e il peccato e convertirci – anche come Chiesa. Sviluppare una cultura dell’errore significa imparare a non nascondere, non occultare, non banalizzare gli errori, ma nominarli, ammetterli e chiedere perdono. La cultura dell’errore presuppone onestà e anche disponibilità a non permettere più che si verifichino iniquità e che si crei terreno fertile per nuove ingiustizie. Una buona cultura dell’errore ci rende umili come Chiesa, ma anche decisi nel trattare i passi falsi e le situazioni di peccato all’interno delle nostre fila.

Il paradosso della speranza cristiana

La notte di Pasqua è la celebrazione più importante dell’intero anno liturgico. Già nella Chiesa delle origini si intendeva il tempo di penitenza pasquale come preparazione a questo evento. Dopo l’accensione del fuoco nuovo e l’ingresso con il cero pasquale nel buio della chiesa, viene proclamato il canto di lode. Qui ascoltiamo parole intense: ” Nessun vantaggio per noi essere nati, se lui non ci avesse redenti. O immensità del tuo amore per noi! O inestimabile segno di bontà: per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio! Davvero era necessario il peccato di Adamo, che è stato distrutto con la morte del Cristo. Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!”

Queste parole contengono il paradosso della speranza cristiana: anche dalla colpa più grave può nascere la trasformazione, ma senza relativizzare l’ingiustizia commessa. Si sperimentano talvolta colpe che non vengono perdonate sulla Terra, almeno non da parte delle persone colpite. Questo “conto” aperto rimane un fatto con cui dobbiamo convivere nella nostra responsabilità. Alla luce della morte e della resurrezione di Cristo, però, non esistono più peccati imperdonabili, se l’uomo li ammette e chiede perdono.

Il realismo della Bibbia 

Molte grandi figure bibliche ci vengono presentate come persone non infallibili. Al contrario. Sono individui che hanno sperimentato fratture nella loro vita. Nella storia di Mosè, per esempio, si narra senza mettere nulla a tacere: “Vide un egiziano che colpiva un ebreo, uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’egiziano e lo sotterrò nella sabbia.” (Es 2,11-12). Il re Davide si macchia di una grave colpa perché brama per sé la moglie di Uria. Lo manda a morte per poter realizzare il suo piano: “Ponete Uria sul fronte della battaglia più dura; poi ritiratevi da lui perché resti colpito e muoia” (2 Sam 11,15). Degli apostoli, della cerchia più stretta attorno a Gesù, l’evangelista Marco riporta, dopo l’arresto del loro maestro, le parole drammatiche: “Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono” (Mc 14,50). E di Saulo, che sarebbe diventato Paolo, una delle figure più straordinarie della Chiesa primitiva, si legge negli Atti degli Apostoli durante la lapidazione di Stefano: ” E i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo… Saulo approvava la sua uccisione.” (At 7,58; 8,1).

Pietro, la roccia e Satana

Nessun’altra figura del Nuovo Testamento ci viene raccontata e presentata in modo così dettagliato, vivace, memorabile e umano come Pietro: da un lato la roccia, dall’altro la pietra d’inciampo lungo il cammino! “Roccia” e “Satana”, altezza e bassezza, chiamata e caduta, entusiasmo e tradimento, ammissione di colpa e incapacità di comprendere si trovano fianco a fianco. Pietro deve imparare lungo tutta la sua vita che può riconoscere Gesù come il Cristo solo se è pronto a seguirlo nel suo cammino, su verso il Golgota, oltre la croce fino alla resurrezione. Nell’ultimo capitolo del Vangelo di Giovanni, durante l’introduzione al suo ministero di pastore, vengono affrontati ancora una volta il fallimento e la debolezza del massimo ministro della Chiesa attraverso le tre domande sul suo amore. Solo in questo contesto, solo nella consapevolezza della sua colpa, Pietro può riconoscere: ” Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene” (Gv 21,17).

Più nitidamente non lo si potrebbe esprimere: Pietro, la roccia della Chiesa, è anche Satana, un antagonista di Dio! Il discepolo, che attraverso il dono di Dio può diventare una roccia salda, si mostra anche com’è nella sua debolezza umana: un Pietro che affonda, un inciampo sulla strada, un sasso contro cui urtare e cadere – uno ‘ skandalon ‘.

Non c’è nessuna altra figura biblica che renda così chiaramente il significato della cultura cristiana dell’errore: non nascondere i passi falsi, ammettere gli sbagli, crescere grazie ad essi, non disperarsi per essi ma deplorarli. La cultura dell’errore, guardando a Pietro, il primo degli apostoli, significa anche assumersi la propria responsabilità, senza insistere su perdono o comprensione.

„Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle…”

Nella tradizione cristiana, ciò che oggi intendiamo come cultura dell’errore si chiamava “atto penitenziale”. Ogni celebrazione eucaristica inizia così. Dietro questa confessione c’è la consapevolezza che noi umani non dovremmo essere la misura di tutte le cose. Facciamo errori e abbiamo bisogno del perdono, sia come individui che come comunità. Dio ci concede una cultura dell’errore viva e ci aiuta a riconoscere e correggere gli sbagli. Questo porta a una maggiore consapevolezza di noi stessi e a nuovi approcci di pensiero.

La Pasqua, il culmine della fede cristiana, ci dice: il Redentore è l’origine del perdono! Perciò, una mentalità e una cultura che ci incoraggiano a riconoscere i fallimenti, i comportamenti scorretti e la colpa è profondamente cristiana. Essa non porta a una rottura, ma al perdono e a un nuovo inizio costruttivo e creativo, a un’esperienza di resurrezione in mezzo alle nostre relazioni e al nostro mondo. Come persone di fede possiamo sperare che questa promessa pasquale sia valida anche dopo i dolorosi atti di abuso e il modo in cui sono stati affrontati. 

Riconoscere gli errori gli uni con gli altri

La cultura dell’errore, in questo contesto, non significa solo ammettere i propri errori, ma anche accettare che siano gli altri a farceli notare. Questo genera un’atmosfera in cui non solo si chiede perdono, ma si crea anche spazio per accogliere le critiche. Questa disponibilità dimostra umiltà e apertura. Crea un clima di fiducia che segnala ai coinvolti: le vostre esperienze non vengono ignorate, il vostro dolore non viene taciuto e le vostre parole vengono ascoltate. La cultura dell’errore è un dialogo vissuto, in cui possono trovare voce anche verità dolorose. Sono pronto non solo ad ammettere gli errori, ma sono anche aperto al fatto che altri mi facciano accorgere dei miei. Questo può rafforzare notevolmente la fiducia nel processo di cambiamento.

Imparare dagli errori 

Nel Vangelo di Giovanni si trova la frase: “Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Partendo dalla dolorosa, umiliante e imbarazzante realtà che nella nostra Chiesa sono stati commessi atti di abuso, dobbiamo tutti chiederci come gestire il potere, l’autorità, la sessualità umana e le relazioni interpersonali in un’ottica di valori cristiani fondamentali. Questo richiede un’onesta e radicale esplorazione della coscienza sia a livello personale che strutturale, cioè come Chiesa comprensiva di tutte le sue istituzioni. È fondamentale che ci schieriamo dalla parte delle vittime e di tutte le persone coinvolte. Esse devono essere al centro della riflessione e dell’apprendimento derivante dallo studio sugli abusi. Tutti noi possiamo e dobbiamo chiederci: quali valori guidano il nostro modo di relazionarci? Come possiamo rispettare la dignità di ogni persona e il diritto all’integrità fisica e psicologica di ciascuno, in particolare dei bambini e dei giovani?

Qui la Chiesa e la società possono e devono avviare un nuovo dialogo. Senza distogliere in alcun modo l’attenzione verso la responsabilità della Chiesa, non possiamo tacere che la maggior parte della violenza sessualizzata avviene all’interno delle famiglie e nei contesti di parentela e di vicinato. Inoltre, ci troviamo di fronte ad una preoccupante realtà di violenza sessualizzata sui minori che sempre più spesso avviene attraverso i social media e Internet. Proprio perché l’abuso può e avviene frequentemente ovunque – dentro e fuori la Chiesa – è necessario un cambiamento radicale di mentalità, profondamente umano e cristiano: da una cultura dell’indifferenza a una cultura della consapevolezza; da una cultura del “non immischiarsi” a una cultura della trasparenza, dell’apertura e della corresponsabilità. Questo riguarda tutti e c’è bisogno di tutti! Una vera e sincera cultura dell’errore ci confronta anche con la sobria e realistica consapevolezza: non sono solo gli altri a potersi rendere colpevoli – ma anche io.

Ancora una volta: coraggio per una cultura dell’errore in accordo col Vangelo 
Non abbiamo forse imparato fin da piccoli che è scomodo quando i nostri errori vengono alla luce? Non abbiamo forse cercato troppo spesso, anche come Chiesa, di mostrare a noi stessi e agli altri una facciata impeccabile? Ma noi, come esseri umani e come credenti, non siamo affatto perfetti, e l’opzione “non sbagliare mai” non è realistica. Perciò cadiamo continuamente nella tentazione di nascondere gli errori. Davanti a noi stessi. Davanti agli altri. E anche davanti a Dio.

Dio ha una cultura dell’errore completamente diversa! Gesù è in persona la mano tesa, salvifica e riconciliatrice che Dio ci porge – sempre, ancora e ancora. Davanti a Dio, che ci concede perennemente una nuova opportunità, non dobbiamo nascondere le nostre mancanze. Questa divina misericordia ci ispira a sviluppare anche nelle relazioni tra di noi una cultura dell’errore caratterizzata da rispetto, empatia e disponibilità ad apprendere. La rottura decisiva avviene quando nascondiamo i passi falsi per paura delle conseguenze, e così li minimizziamo. Questa dinamica può portare a un dilagare silenzioso e inavvertito di comportamenti scorretti.

Alla luce del messaggio pasquale, il riconoscimento degli errori può essere l’inizio di una vita nuova, liberata. Così, anche il concetto di “felice colpa” assume una nuova dimensione di speranza e concretezza: riconoscere lo sbaglio non significa solo mostrare la propria debolezza, ma avere il coraggio di fare il primo passo verso la guarigione.

Pasqua, la festa più grande, la più antica e importante della nostra fede, ci doni in questo Anno Santo quella speranza concreta in Gesù Cristo, il Crocifisso e Risorto, che con la Sua misericordia ci libera dalle colpe e ci trasforma in ambasciatrici e ambasciatori di una nuova e seria cultura dell’errore, rendendoci così pellegrini e pellegrine di speranza.

Uniti in LUI e tra di noi 

Il vostro vescovo

+ Ivo Muser 

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